Matassa

Cosmo incide la sua storia sui muri di Milano. E Milano se ne frega. Poi rappa o reppa, o come cazzo si dice. E si racconta al vento. Perché chi ascolta è mediamente depresso, mediamente felice, mediamente sordo. Il vento accetta e porta. Mentre muove regge la melodia. La musica sostiene le parole, ma è una trappola, le dissolve in bolo digeribile. E il messaggio nasce avvelenato e muore molle di speranza. Cosmo ha sedici anni, cova la rabbia di un impiegato, vive nel presente, inventandosi un passato malandrino. Ma ha i baffi da topo e poca esperienza delle cose. Vive d'altro. L'altro è sempre il miraggio di una misera rivoluzione. Oggi ha bigiato. E la giornata si apre su un muro bianco in un vicolo della Bovisa. Promette bene. Ora il drago. Cosmo immagina il drago, il drago si manifesta in due ore di fatica. “Grande.” Gli manca il fiato. Per qualche secondo s'inebria di quei colori, dell'arte popolare, si loda e s'imbroda.  Poi chiude lo zaino e si dirige verso un'inevitabile cazziatone. Pensa che sua madre avrà letto il registro elettronico o ricevuto una comunicazione dalla scuola. Accende il cellulare. Mille chiamate della femmina alfa. Un messaggio “Dove sei? Dimmi dove sei.” Ripetizione, segno d'ansia. L'ansia dei genitori apprensivi muta in schiaffi in un batter di ciglia. “Gli schiaffi si dimenticano” pensa Cosmo. 

Passi, mille passi e la metro senza autista. La tecnologia dei grandi è una forma vuota. Un verme di metallo che ti ingoia e ti sputa nei paraggi della tua abitazione. L’Iphone suona. Perché prende anche venti metri sotto terra. Bella fregatura. Suona. Cazzo, Silvia. “Ciao, ma’... no, scusa, sì tranquilla. Dài non... sedici anni. La prof mi odia e… sì... no. Torno, torno. Sto arrivando. In Dergano. Sì, un quarto d’ora. Non urlare. Arrivo!...” Minchia. Il padre di Cosmo si è involato. Mezzo orfano, così si definisce. Suo padre era matto, ma geniale. Pare che avesse trovato il modo di fare soldi senza lavorare. Potevi trovarlo quasi sempre nella sala giochi sotto casa. Aveva elaborato un metodo per calcolare la probabilità di vincita delle slot. Così diceva. E vinceva. Poi qualcuno dev’essersene accorto. In coma. Due mesi. Poi ciao. A quei tempi vivevano in Gran Sasso, poi casa popolare e tutto il resto. Madre che si fa il mazzo per l’affitto, figlio che odia. Si costruisce un fossato di balle e tutto ciò che serve a non farsi avvicinare da gente troppo felice. E cerca il bandolo. Ma manca la matassa. “La bici!” Il mezzo è proprio diventato tale. Qualche pirla ha spezzato il telaio e fregato tutto il resto. “Oggi non va.” Alza il cadavere e lo molla, scuotendo la testa. Portoncino. Clic. “Sali.” La voce di una madre delusa al citofono fa crescere. Adesso sono cazzi. Adesso mi gonfia. Quattro gradini, primo piano, pop loft al piano rialzato. Apre la porta scrostata. Il silenzio governa la piccola casa. “Mà...?” Nessuna risposta. Dev’essere nera come un tizzone bagnato con il chianti. “Mà, sono qui, dài...” Cerca in cucina e non c’è, accelera, esplora il salottino, poi il bagno – guarda anche nella vasca – che ha visto un film in cui... non c’è. “Ma dove...” La camera è l’ultimo vano. La camera divisa da un telo per separare le orbite di due pianeti erranti. La camera delle lunghe telefonate, della nanna – mano nella mano – anche se sei grande – mapermeseisempreilmiobambino, la camera del primo sonno. “È lì” pensa. Entra, aprendo la porta appesantita dall’urgenza.  

La vede. Lei brilla. Nervosa, piange e ride, piega cose, apre cassetti, borbotta muta.  

La vede. Matassa.