A febbraio torna il sole

È il dodici febbraio 2014. Un sole anemico si infila prepotente tra le fessure della serranda. Apro gli occhi a fatica, stiro i muscoli delle gambe con lentezza, mentre piccole scosse elettriche mi solleticano le caviglie lasciate scoperte dal piumone. La mia mano si sposta intorpidita sul comodino, cercando di indovinare la posizione degli occhiali al buio. Mi tiro su a sedere sul bordo del letto, i piedi nudi si ritraggono un istante al contatto con il marmo ghiacciato. Tiro un sospiro lunghissimo e penso: oggi è un giorno come un altro. Non funziona, non basta così poco per convincermi, ho bisogno di pronunciare a voce alta queste parole, dar loro un suono e una forma, mentre i fotogrammi dell’ultimo anno si accumulano uno sull’altro a cascata dentro il mio cuore cavo.

Oggi è un giorno come un altro. Anche se non lo è, anche se non lo sarà mai più. 

Ho quindici anni, è il dodici febbraio 2013 e un sole innaturale mi martella contro le tempie. La mia testa è un grappolo di stalattiti che mi perforano i pensieri a intervalli regolari, i miei occhi sono arrossati dal freddo e contornati da grinze viola, come brevi tratti di matita colorata che mi bucano la pelle. Mi stringo forte nel cappotto, la sciarpa di lana mi avvolge così forte la gola che quasi mi manca il respiro. Non mi muovo, non distolgo lo sguardo, non parlo. Osservo. I becchini stanno trafficando con i loro arnesi dentro una carriola. Mattoni, calcestruzzo, una lastra di marmo e una banderuola di carta plastificata con su scritto un nome, un cognome, e due date. 

Cominciare e finire una vita tra le lastre di lamiera di un guard rail. E di tutto quello che c’è stato nel mezzo cosa rimane?

Dietro quella lastra di marmo da un anno abita mio padre. Durante i primi mesi mi scoprivo a farmi domande strane. Chissà come si trova nella sua nuova casa, chissà se i suoi vicini di letto sono socievoli, chissà se ha già trovato un complice da corrompere per farsi recapitare le Marlboro di contrabbando, chissà se ogni tanto si diverte ancora ad andare per funghi tra i faggeti in collina. Con il passare dei giorni i contorni del suo viso si sono fatti opachi, il suono della sua voce più sbiadito, il ricordo della nostra quotidianità insieme acquoso. 

Oggi è il dodici febbraio 2014 e questo giorno un anno fa guardavo degli sconosciuti infilare in un feretro il corpo di mio padre con indosso il completo del matrimonio. Avrei potuto scegliere un giorno diverso per rientrare a scuola. Ma ho sentito che fosse giusto così, che non avrebbe avuto lo stesso significato fare altrimenti. Al bar della scuola, durante la colazione, i compagni mi riservano sorrisi cauti, goffi, inadeguati. Non sanno come affrontarmi, temono le mie reazioni, non riescono a immedesimarsi, a pensare con la mia testa, a camminare con le mie gambe, a sentire con il mio cuore. Questa distanza di sicurezza mi pesa, è tempo di rompere lo stato d’assedio in cui ho vissuto nell’ultimo anno. Sorrido. Un sorriso complicato, che si arrampica a fatica sulle labbra e mi irradia il viso con un tepore timido e impacciato. Da lontano, la voce del bidello Luigi borbotta contro i ragazzi della I B che fanno lo slalom sul linoleum appena lavato, giocano a rincorrersi sulle scale tra un piano e l’altro, sulle spalle il vocabolario di latino e in mano le solite brioche rinsecchite del bar di Cesare.

È il dodici febbraio e io sono tornata.