Internet

Ramil rifletté che aveva la giornata piena. Piena per i suoi acerbi 16 anni e piena rispetto alla sonnolenta monotonia di quella cittadina della piana bresciana dove l’unico svago per un ragazzino della sua età consisteva in quel sabato sera alla discoteca lungo la superstrada.

Chissà, una sera o l’altra avrebbe potuto esibirsi come il suo amico Ahmed, in veste di Dj: quello “cuccava” parecchio, la voce vibrante, il ciuffo gelatinosamente arricciato, l’ammiccamento sfrontato. Di numeri per “cuccare” ne avrebbe avuti anche lui: si trattava solo di trovare uno straccio di tempo. Però: il mattino il lavoro allo scatolificio, come operaio apprendista, il pomeriggio la scuola serale per specializzazione e poi a casa per i “contatti”. Sì, nella sua giovane vita era apparsa questa cosa nuova, grazie ai suoi contatti Internet nel computer di casa, unico tesoro di quella modesta abitazione di immigrati, piccola ma gremita di specchi e di tappeti, trovava quella “svolta” di cui sentiva un prepotente bisogno. Pensò al suo arrivo dal Kosovo, molto tempo prima, un neonato su un barcone pieno di gente intirizzita di cui non serbava alcun ricordo.

I suoi genitori ora si dichiaravano “integrati”: dei sopravvissuti grati per il dono dell’accoglienza, di un lavoro sottopagato e di un tetto caldo. Ma questo appagamento non toccava Ramil che sognava “qualcosa di più”. Ahmed un giorno gli aveva prospettato quel “qualcosa di più” e indicato come trovare i “contatti” su quello schermo che poteva raggiungere territori lontani ma “vicini” al suo sangue, sangue ribelle.

Ahmed era il contatto, il “reclutatore”. Presto se ne sarebbero andati via loro due. Via, via per sempre. Sullo schermo appariva il volto coperto di un certo Mohamed, occhi sfavillanti tra le bende nere, che incitava i “fratelli”, parlando delle ricompense di Allah, dell’importanza del loro compito. Quando mai qualcuno aveva chiamato “fratello” Ramil in questa terra aliena? Giusto Ahmed che gli batteva su una spalla “bravo, fratello mio. Tra un po’ sarai un uomo, un uomo vero, sarò fiero di te”. Ramil osservò lo schermo che si stava illuminando, ma sentì il rumore della porta di casa e la voce di sua madre: “Ramil, sei qui?”. Chiuse di corsa il computer. Gli occhi gentili e scuri di sua madre avrebbero scrutato come sempre i suoi poi, con un sorriso, si sarebbe diretta in cucina. Con rabbia Ramil pensò alle vecchie mortificazioni subite dai genitori, all’arrivo, i primi tempi. Ma poi le cose erano migliorate.

Sentì il rombo di un motorino, oddio sarà lei? E speranzoso si affacciò alla piccola finestra. Giusto Paoletta, la ragazzina della casa accanto. Qualche volta in discoteca, qualche volta per strada i loro sguardi si erano incrociati, i loro corpi sfiorati, ma poi il giorno prima a lei erano caduti all’improvviso dei libri dal braccio, per strada, giusto quando passava lui. E così aveva trovato una scusa per accompagnarla e parlarle.

Parlare… parlare… con lei si parlava bene, si poteva ridere, scherzare, nonostante la timidezza. Arrivati al portone di casa lui, irrefrenabilmente, l’aveva baciata; lei irrefrenabilmente aveva corrisposto il bacio. Non aveva potuto dormire tutta la notte per questa cosa meravigliosa. “Paoletta!!!” chiamò lui dall’alto. Lei si voltò e agitò il braccio con un gran sorriso, casco blu e motorino bianco, non vedendo la grossa macchina che la stava investendo. Ramil in un attimo la vide riversa sul marciapiede, piccola piccola contro la pietra scura. Scese le scale correndo mentre le sirene dell’ambulanza già si avvicinavano. Stordito, con la bici arrivò all’ospedale e la vide sparire in quell’affollarsi di medici intorno alla lettiga. Restò in attesa, in piedi contro un muro, per tutta la notte. I genitori di lei piangevano affranti all’altro lato del muro. Finalmente comparve il chirurgo e, dall’espressione sollevata dei parenti, lui capì che lei doveva essere fuori pericolo.

Allah è grande, pensò, ma questo Allah gli parve diverso da quello sbandierato dalle voci del computer. Suonò il cellulare: “Ahmed, no Ahmed, non vengo più” rispose stupito lui stesso da questa decisione, dato che tutto era pronto da tempo per “la fuga”.

“È un miracolo” pronunciò qualcuno uscendo dalla sala operatoria.

Per la prima volta in vita sua Ramil si soffermò sul significato della parola “miracolo” e si asciugò la grossa lacrima che bagnava il suo viso.