13 anni

Domenico tornò al proprio banco, dopo l'interrogazione di storia, alquanto impacciato per via di quegli sguardi divertiti e di quei bisbigli strafottenti rivolti al suo indirizzo.
Il motivo lo indovinava: tutto questo per via della sua cadenza meridionale che suonava così divertente agli orecchi dei suoi compagni milanesi. L'essere “terrone” gli stava pesando in questo primo anno di scuola a Milano, III media, sezione D, dopo il trasloco da Palermo. Per esempio, i suoi compagni Karim o Sachi, uno arabo l'altro giapponese, non suscitavano tanta malcelata ilarità. Loro la cadenza milanese l'avevano già assimilata. Solo le facce tradivano l'origine “esotica”. Lui era solo il “terrone” non esotico. Per di più, Domenico era consapevole di possedere una stazza robusta nonché un paio di occhiali dalla montatura molto fuori moda, scuri, pesanti, che non gli donavano per niente. Un panda sono, si diceva scontento. Mica come il suo compagno Nicolò, che li aveva superleggeri, con quel DG di lato che tanto la diceva sulla sua classe sociale. 
L'interrogazione era andata bene, come sempre, nonostante l'impaccio. A casa trovò la madre, già rientrata dal suo turno di lavoro come cassiera del supermercato del quartiere. Vivevano soli, lui e lei, condividendo solitari una nostalgia tremenda per il loro paese. “Com'è andata?” chiedeva lei ogni volta. “Bene” rispondeva Domenico, cercando di non tradire il proprio disagio. Dopo aver sbrigato le incombenze domestiche, lei estraeva dall'armadio i libri, si sedeva al tavolo e cominciava a studiare. Si preparava alla licenza media, alle serali: le sarebbe servita per il lavoro. Non passava molto tempo che lei lo chiamava “Dommé!”. Ecco, ora gli sarebbe toccato aiutarla, interrogarla, cercando di toglierle quei modi di interloquire troppo “siculi”. Lei non aveva studiato, a tempo debito. Era diventata madre a 16 anni, una madre “bambina”, ma già prima era stata tolta dai banchi scolastici per lavorare e aiutare in campagna. Del padre non si era saputo più nulla. Anche lui un bambino, sicuramente. Cose che capitavano dalle loro parti. Un giorno aveva trovato un ritaglio di giornale, con certi titoli drammatici su una strage organizzata da clan mafiosi. Tra le foto delle vittime ce n'era una ritagliata, con sottolineato il nome Antonio. Un bel giovane. Si era messo in testa che quello fosse suuo padre. E questo doveva essere il suo “segreto”. Dopo questo fatto erano partiti per Milano, forse un po' troppo in fretta e furia. Uno zio si trovava già qui, li avrebbe aiutati. “Ripeto ancora la lezione, Dummì?” supplicava la madre la sera dopo il lavoro. “Manca solo un mese”, sospirava, “ce l'agghia a far”. Domenico l'ascoltava concentrato. Lui i suoi compiti li aveva già fatti. Quindi la poteva aiutare: intanto metteva su due hamburger e l'acqua per la pasta. Tutti amavano sua madre, per via di quel sorriso sorprendente, da ragazzina. 
Bene o male, un mese era passato. Gli scritti a lui parevano essere andati bene, aveva cercato anche di aiutare Nicolò, in evidente difficoltà con la matematica. Sua madre era contenta per lui, ma si torceva le mani dal nervosismo per sé. “Domani gli orali, non dormo da notti, Dummì!”. Domenico sospirava: “Vuoi ripetere la lezione, mà?”. E così piano piano si era arrivati al giorno degli scrutini. “Vai tu, Domenico, a vedere. Niente ricordo di quello che ho detto, solo una gran confusione. Vai, per piacere”. Sospirando Domenico si avviava verso la scuola della madre. Nicolò gli si era affiancato : “Che strizza, si va insieme a vedere? Che forte sei stato però ad aiutarmi. Se son passato, se ti va, i miei ci offrono un'uscita in pizzeria, domani”. Domenico si era fermato, del proprio risultato era sicuro. “vai tu avanti, prima devo andare in un posto. Ti raggiungo”. Svoltò correndo verso la scuola serale. Il cuore gli batteva forte. Che cosa aveva combinato quella meschinuzza di sua madre? Arrivato ai tabelloni, quasi non osava guardare; con lentezza arrivò alla lettera b, Bellizzi. Un sorriso soddisfatto alla fine gli illuminò il viso. Da qualche parte un professore stava tracciando il suo profilo: “Discreta difficoltà di inserimento. Per contro notevole impegno dimostrato nell'applicarsi, specie per la matematica e le scienze, materie per le quali dimostra una certa propensione. Niente da eccepire sulla disciplina. Qualche lacuna in italiano compensata da una buona capacità di sintesi nei temi svolti. Nel complesso, studioso, portato allo studio scientifico, solo da riscontrare forse una natura ancora infantile per i suoi 13 anni”. Si soffermò su questa parola “infantile” e sorrise soddisfatto.

Rovesci

Eccolo, il codino biondo leggermente arruffato, le gambe lunghe e secche, lo sguardo chiaro sopra quelle efelidi che alle guance quando si arrossavano davano trasparenza di pesca. Marco, dal suo banco, si sentiva sollevato al solo vederla entrare in aula. 

 

Troppo aspettare questo momento, ogni giorno, ogni mattino, ogni ora. Quel triste edificio, liceo dalla cupa architettura fascista, diventava allora tollerabile, pronto celare quel cuore di liceale innamorato. 

 

La mano di Marco tremava nell’estrarre il foglietto, sul quale aveva stilato quei versi dell’Orlando Furioso, versi d’amore per la fuggitiva Angelica. Non aveva ancora trovato il coraggio di darlo quel foglietto, all’Angelica del suo cuore, questa Laura di cui scorgeva il codino un metro davanti a lui, giusto un banco a separarli. All’uscita, quando insieme percorrevano la strada da scuola alla casa di lei, lui quei versi non osava darglieli. Nella sua stanza ne aveva una cinquantina, sparpagliati un po’ ovunque. 

 

Lei abitava in una palazzina elegante, un neoclassico lombardo, il cui portone lasciava intravedere un giardino con piccole palme a fontane zampillanti. A pochi metri di distanza da questo quartiere di “lusso” iniziava quello delle case popolari, dei “poveri”, delle case “liggera”, dove abitava Marco, appunto. Un quartiere a separarli, a dividere questo amore. Il padre di lei celebre venditore, un poco chiacchierato, per via di quella ricchezza non troppo “pulita”, quello di lui operaio ora in cassa integrazione, un turbine di lavoretti precari per mantenere lui agli studi, allievo brillante, promessa di un futuro migliore. Ecco il perché dell’addentrarsi in quelle vicende fantastiche ariostesche. 

 

Alla fine, lui i versi dell’Ariosto era riuscito a infilarli nello zainetto. Sebbene sapesse dell’impossibilità di quest’amore. Sebbene sapesse di quest’impossibilità lei un bacio glielo aveva dato contro un muro di sera. E poi era partita per l’estero con il suo profumo di ricchezza. Di lei più niente. Dodici anni dopo Marco correva in aeroporto verso l’aereo che l’avrebbe portato negli Stati Uniti, un contratto in tasca, dopo quella borsa di studio guadagnata con fatica, studio, lavoro per anni per non deludere i suoi e ora la fortuna, il lavoro. 

 

Comprando il giornale, in un angolo vide un’edizione economica dell’Orlando Furioso. Sorrise al ricordo di quel codino biondo indimenticato. Doveva affrettarsi. Una coda bionda lì c’era in realtà, apparteneva a una ragazza con la divisa verde di addetta alle pulizie, all’estremità della sala verso la zona dei servizi. Eh sì, Laura si arrangiava con lavoretti precari, dopo la “disgrazia”. Il padre in carcere per bancarotta aggravata, la malattia della madre, l’abbandono degli studi, tutto in fumo. Dalla tasca era caduto un foglio ormai ridotto quasi in briciole, dopo dodici anni. I versi dell’Ariosto giacevano impalliditi su quel pavimento lucido. Marco ci stava posando sopra il piede, nel dirigersi verso l’imbarco. Si fermò a raccoglierlo. Batté con fretta sulla spalla di quella ragazza. 

 

“Mi scusi... è suo?” Eh sì, il destino fa strani scherzi, a volte.

Insomma

“ C'è nessuno? ” 

Silenzio. 

Toc toc. 

“ C'è nessuno? ” 

Ettore avvicinò il naso al vetro verde della casa dei suoi sogni e vide una specie di hobbit avvicinarsi al portoncino. Clic Clac. La sagoma si rivelò essere quella di un bambino. 

Un bambino di età indefinibile, tra zero e dieci anni. 

“ Ciao.” 

Disse la creatura senziente, ancora appesa alla maniglia. 

“ Chi sei? ”. Proseguì.

Il fattorino accennò una risposta. Inspirò e... decise di non intrattenere una conversazione. 

Passò al dunque: “La tua mamma è in casa?”. 

Il bimbo lo fissò per un eterno minuto, poi, fluttuando, abbozzò una risposta.

“ Non c'è.”  Punto.

“ Sicuro? ” 

“ Sicuro. ”  

“ Dovrei lasciarle questo pacco. ” 

“ Non puoi. ” 

“ Mmmmh, mi pagano per farlo. ” 

Silenzio, troppo difficile. 

“ Non c'è!” 

Il fattorino provò un'altra strada:

“ Papà? ” - Signore aiutami. -

“ Sono al lavoro. Nel box. Costruiscono lampade. ”  

Il fattorino ammutolì, poi propose la sua versione della risposta.

“ E'... al lavoro. ”  

“ Chi? ”   

Rispose il coso, sventolando una mano a bocciolo di fronte al naso dell'uomo,

che,  in un grintoso sussurro, replicò, avvicinandosi:  

“Il papà! ”  

“ Mmmmmh, i papà sono nel... ” 

“ ...box, puoi chiamarmene... uno?” 

“ No. ” Bum! Porta chiusa. Addio elfo e consegna.

- Naaaa -

Drin drin drin!!! 

“ Apri, per favore! ” 

Si rese conto che il pacco pesava. Driin! Tanto. Lo poggiò sullo zerbino. 

“Rainbow family” - Ah, ecco. Quelli. Culi. Fanno cose strane, fanno figli senza le femmine. - Pensò. Driiiin!!! - Ah, no, no, affittano pance, robe.... Chissenefrega, rispondessero. - Sagome in movimento oltre la soglia. 

Clic clac. 

“ Buongiorno. ” 

Uomo di età certa. Quarant'anni, come da scritta sulla t-shirt.

“ Desidera? ” 

“ Dovrei consegnare questo pacco a. sua, a suo... a uno di voi, insomma. ” 

“ Insomma? ” 

Viso paonazzo. “ Si, insomma, nel senso che...” 

“ Si, il senso è chiaro. Cosa devo firmare? ” 

“ No, no, mi scusi, non vorrei che avesse frainteso. ” 

Era preoccupato. Pensava a quel maledetto comunista del suo capo, che non gli avrebbe mai perdonato una segnalazione da uno di quelli, da un ghei (gente che governa il mondo, insieme agli ebrei, ai gesuiti e ai rettiliani). 

“ Guardi, io sono per la libertà... ” Disse, senza riuscire a terminare la frase.

“ Sì, sì, conosco la manfrina: ognuno a casa sua può fare ciò che vuole, c'ho lo zio partigiano, c'ho un amico che conosce un tizio gay, alla fine siete buoni, Michelangelo, Leonardo bla bla bla, ergo:  <insomma> - Se ne vada e porti via il cartone. ”  Rispose il quasi cliente, grattando la terra con un tacco.

Di male in peggio, pensò il fattorino, disperato. 

 “ No, si, no. Aspetti. Mi faccia parlare con sua moglie. e. e.e... No, no, no! 

Dio fulminami. Adesso.” 

Si sentì colpire da un batticarne, rosa.  

Non riuscì a fermare la corsa del portoncino, ormai il vero nemico. 

Bum! 

- Sua moglie, sua moglie, ma come faccio ad essere così pirla? - 

Formò un rombo con le mani e ci urlò dentro: 

“ Marito! Compagno! Mi apra, per favore! ”    

“ S n vd ! ”   

Anche senza le vocali, mangiate dalla distanza, il messaggio sembrava chiaro. Si sedette sullo scalino dell'ingresso e mise in fila i fotogrammi della scena. Mosse le dita. Uccise una formica. 

Di ghei ne conosceva pochi, non ne frequentava nessuno ed ora sapeva perchè. Permalosi. E quel figlio! Lui non ne aveva. Il Signore non lo aveva ascoltato, malgrado le preghiere, le messe cantate e i pellegrinaggi. 

- Questi, invece... Senza madre.  La mamma è importante. Certo, anche il papà, ma la mamma è la mamma. Lo dice pure... coso. Ed è mezzo frocio pure lui. Non c'è, mi ha risposto il rospetto. Chissà quanto soffre, povero. Suono di nuovo. -  

Clic clac. 

Un tizio rosso di capelli si affacciò all'uscio. Ettore girò il collo di tot gradi e lo vide. 

Si fissarono. Il tizio spalancò la porta, mostrandogli l'interno della casa. 

Lo hobbit gironzolava per il soggiorno con un triciclo di legno, mentre un genitore sfogliava  l'Internazionale. Ettore notò che ogni tanto abbassava la pagina per monitorare il bambino e sospirava. 

Fissò il roscio con occhi da cucciolo. “ Me lo prende il pacco? ” 

Frase infelice. “ Idiota. ” 

Continuava a fissarlo. Ghei e rosso di capelli, la cattiveria fatta persona, pensò Ettore. 

A quel punto, la sentinella in piedi che si nascondeva nel suo subconscio sentì di dover reagire. 

Con garbo: 

“ Credete di essere superiori perchè siete diversi? E' una moda! ” 

Urlò, avvicinandosi all'irlandese. 

“ E 'sta creatura? Cosa risponderete quando chiederà della mamma? Ma vergognatevi, zozzoni. ” 

Il mondo si fermò. 

Poi il rosso lo allontanò dal suo naso, si grattò il mento e si pronunciò: 

“ E' importante, coglione? Il mondo è abitato da un nuovo bambino. La mamma? La dedizione è madre, il resto non conta.”     

“ Lei ha figli?  ”  Aggiunse.

“ No. ” Rispose il fattorino.

“ Non ne faccia. ” 

Carezzò con la mano il portoncino e lo spinse, a chiudere ogni dialogo con chicchessia.

 

Ettore affogò in un mare di mosche. 

Sapeva di aver esagerato, “ma quelli...” Sollevò il pacco e si ripromise di chiamare sua madre. 

Era sicuro che sua madre lo odiasse, ma l'avrebbe chiamata comunque. 

A febbraio torna il sole

È il dodici febbraio 2014. Un sole anemico si infila prepotente tra le fessure della serranda. Apro gli occhi a fatica, stiro i muscoli delle gambe con lentezza, mentre piccole scosse elettriche mi solleticano le caviglie lasciate scoperte dal piumone. La mia mano si sposta intorpidita sul comodino, cercando di indovinare la posizione degli occhiali al buio. Mi tiro su a sedere sul bordo del letto, i piedi nudi si ritraggono un istante al contatto con il marmo ghiacciato. Tiro un sospiro lunghissimo e penso: oggi è un giorno come un altro. Non funziona, non basta così poco per convincermi, ho bisogno di pronunciare a voce alta queste parole, dar loro un suono e una forma, mentre i fotogrammi dell’ultimo anno si accumulano uno sull’altro a cascata dentro il mio cuore cavo.

Oggi è un giorno come un altro. Anche se non lo è, anche se non lo sarà mai più. 

Ho quindici anni, è il dodici febbraio 2013 e un sole innaturale mi martella contro le tempie. La mia testa è un grappolo di stalattiti che mi perforano i pensieri a intervalli regolari, i miei occhi sono arrossati dal freddo e contornati da grinze viola, come brevi tratti di matita colorata che mi bucano la pelle. Mi stringo forte nel cappotto, la sciarpa di lana mi avvolge così forte la gola che quasi mi manca il respiro. Non mi muovo, non distolgo lo sguardo, non parlo. Osservo. I becchini stanno trafficando con i loro arnesi dentro una carriola. Mattoni, calcestruzzo, una lastra di marmo e una banderuola di carta plastificata con su scritto un nome, un cognome, e due date. 

Cominciare e finire una vita tra le lastre di lamiera di un guard rail. E di tutto quello che c’è stato nel mezzo cosa rimane?

Dietro quella lastra di marmo da un anno abita mio padre. Durante i primi mesi mi scoprivo a farmi domande strane. Chissà come si trova nella sua nuova casa, chissà se i suoi vicini di letto sono socievoli, chissà se ha già trovato un complice da corrompere per farsi recapitare le Marlboro di contrabbando, chissà se ogni tanto si diverte ancora ad andare per funghi tra i faggeti in collina. Con il passare dei giorni i contorni del suo viso si sono fatti opachi, il suono della sua voce più sbiadito, il ricordo della nostra quotidianità insieme acquoso. 

Oggi è il dodici febbraio 2014 e questo giorno un anno fa guardavo degli sconosciuti infilare in un feretro il corpo di mio padre con indosso il completo del matrimonio. Avrei potuto scegliere un giorno diverso per rientrare a scuola. Ma ho sentito che fosse giusto così, che non avrebbe avuto lo stesso significato fare altrimenti. Al bar della scuola, durante la colazione, i compagni mi riservano sorrisi cauti, goffi, inadeguati. Non sanno come affrontarmi, temono le mie reazioni, non riescono a immedesimarsi, a pensare con la mia testa, a camminare con le mie gambe, a sentire con il mio cuore. Questa distanza di sicurezza mi pesa, è tempo di rompere lo stato d’assedio in cui ho vissuto nell’ultimo anno. Sorrido. Un sorriso complicato, che si arrampica a fatica sulle labbra e mi irradia il viso con un tepore timido e impacciato. Da lontano, la voce del bidello Luigi borbotta contro i ragazzi della I B che fanno lo slalom sul linoleum appena lavato, giocano a rincorrersi sulle scale tra un piano e l’altro, sulle spalle il vocabolario di latino e in mano le solite brioche rinsecchite del bar di Cesare.

È il dodici febbraio e io sono tornata.

Sogno

Dottore, è da tanto che aspetto questa visita; mi stendo qui…ah si, mi chiamo Dragan si, ho 19 anni. Si, il mio problema è il sonno, ma non propriamente il sonno, direi, dottore il sogno; se lei potesse darmi qualcosa per non sognare oppure, meglio trasformare il sogno in realtà. 

Ora le spiego, con calma si.

Dunque ero li, a Mostar, su quella piccola altura che chiamano, beh, non ricordo, è l’emozione sa….Cecchino? Si, ha indovinato, ero in postazione, cecchino quello il mio ruolo, ero in attesa….

E allora, eccolo, lo vedo arrivare, solo due gambe lunghe, un casco, un bersaglio facile. Rido per la facilità dell’operazione: prendo la mira e, per giunta, lo centro. 

Ma, attenzione dottore, il ragazzo, prima di cadere come una betulla troppo fragile, mi guarda. Si, mi guarda diritto negli occhi e vedo che è un ragazzo della mia età, gli sfugge una ciocca di capelli in avanti, e mi sorride. Si, maledizione, mi sorride e io spero di non averlo centrato sul serio, ma no è li immobile, stecchito, senza respiro. 

E io…io, mi scusi non piango però tra un po’ forse si, quel sorriso me lo sogno quasi ogni notte. Lui viene avanti, mi prende per mano e mi parla. Mi parla con dolcezza e mi sospinge oltre la curva, verso la sua casa. Mi vuol far conoscere i suoi, la sua mamuska, il padre, i fratellini.

“Siedi” mi dice indicandomi la tavola apparecchiata.

“Mangia, poi andremo in bicicletta, faremo un giro, arriveremo all’altipiano, percio mangia poco, c’è la salita, non sei allenato”. Mi strizza l’occhio e mamuska ride porgendomi la zuppa fumante. 

Poi dottore, qualche altra notte arriva sotto le mie finestre con la fisarmonica e mi fa un fischio di richiamo.

“Scendi, si va dalle ragazze, musica prima e poi ballo. La mia bella si chiama Ieleni e ha i capelli lunghi fino alla vita e due occhi…due occhi. Dai, scemo, sbrigati”

E poi…non devo piangere, dottore, devo raccontare, ancora una volta, viene a chiamarmi “Dragon, vieni, senti che caldo, andiamo al fiume, a bagnarci, ho portato anche i panini, dai sbrigati” ed eccoci li a sguazzare felici, spruzzandoci l’acqua, i panini adspettarci sul prato. E lui sorride, sorride….

Dottore, mi aiuti la prego, non piango e vorrei tanto piangere….io non vedo che lui e il suo sorriso, capisce? Lui e il suo sorriso…

La Pozzanghera

Quel colore sul viso lo aveva sempre detestato. Spia di un subbuglio interiore che non riusciva a controllare. Segnale di surriscaldamento fisico che andava a localizzarsi esattamente nella parte più visibile, le guance. Ostacolo nel rapporto con gli altri quando si accorgeva che lo sguardo altrui si fermava lì e le sembrava di cogliere disapprovazione. Perché quel rossore, per lei, non aveva significato, se non nel senso di un difetto. Aveva trovato modi di mimetizzarsi e di controllare l’incontrollabile. Il fondotinta poteva tenere a bada il rossore: certo in piena estate le dava quel colorito pallido e un po’ cereo, ma era molto meglio del colore. Aveva anche imparato a muoversi lentamente o a non muoversi affatto, così da evitare il surriscaldamento e le nefaste conseguenze: certo risultava un po’ rigida e bloccata, ma molto meglio di quel colore rosso sulle guance!

Era sempre più frequente che stesse da sola, perché gli altri avevano quel maledetto vizio di voler sempre fare qualcosa, andare in bici o a correre o, ancora peggio, fare gite in montagna, con tutto quello che questo voleva dire in termini di rossore! E poi tutti a chiederle come mai non usciva, come mai non stava con loro. Insomma, meglio sola.

Era solita andare dietro un’autorimessa abbandonata, un luogo che quelli del quartiere avrebbero voluto bonificare e trasformare in un parco. Se ne stava lì, in solitaria, ad osservare una grande pozzanghera nella quale della benzina formava un velo leggermente colorato sull’acqua. Si sentiva un po’ cosi, come quell’acqua poco limpida. Non era limpida neanche lei, sporcata da quel colore sulle guance o dal fondotinta usato per coprirlo. Per questo si sentiva triste e sola. Ma non sapeva come cancellare questo difetto.

Da mesi stava studiando come inventare uno strumento per ripulire l’acqua della pozzanghera. Questo pensiero la distraeva dal disagio e dal dolore. Le venne in mente il barattolo delle bolle di sapone e provò a costruire un tubo cui era attaccato un cerchio, come un grande bastoncino delle bolle di sapone. Quel giorno decise di portarlo con sé alla pozzanghera. Iniziò a soffiarci dentro, sul pelo dell’acqua, per spostare la chiazza di benzina. Era così assorta che non si accorse delle persone che arrivavano a vedere, tra cui molti suoi amici. La benzina si mosse e venne piano piano raccolta dal bastoncino, formando una grande bolla dai colori dell’arcobaleno. Lo sforzo era notevole e già sentiva che le guance erano diventate di fuoco, ma decise di andare avanti. Man mano che la bolla si ingrandiva vide che l’acqua diventava più limpida, riprendendo il suo aspetto naturale. Ci si poteva specchiare dentro, insieme al cielo e alle nuvole, anche loro riflesse nell’acqua. Soffiò forte l’ultima aria che aveva nei polmoni e… la grande bolla scoppiò, producendo una cascata di colori, come tante particelle luminose, come i fuochi d’artificio! 

Esclamazioni di stupore e applausi la fecero sobbalzare: incroci di sguardi incantati, di sorrisi curiosi che le fecero dimenticare di essere accaldata, rossa in volto e senza fondotinta! Quando se ne accorse era troppo tardi, i suoi amici erano tutti attorno a lei e le chiedevano come era stato possibile separare l’olio dall’acqua, così da rendere belli entrambi. Non le sembrava di leggere disapprovazione nei loro sguardi, ma solo genuino interesse. Trasformare il brutto in bello, questo doveva essere il segreto! Se aveva funzionato con l’acqua poco limpida, avrebbe potuto funzionare anche per lei? Le venne da saltare di gioia, noncurante del rossore che ormai aveva invaso il suo volto. Un amico, un amico speciale, le venne incontro e la abbracciò, sussurrandole un “Bentornata..” carico di affetto. Anche lui aveva un leggero rossore al viso, ma non sembrava preoccupato di questo. Si sentì all’improvviso leggera, limpida, bella. Della bellezza che solo le emozioni rendono possibile.

Sono un racconto timido

Odio stare qui in mezzo ad altri scritti che non so da dove vengano e cos’abbiano da dire.
Se solo mi fossi impegnato di più e fossi cresciuto fino a diventare un romanzo, avrei potuto evitare di condividere le mie pagine con altri racconti. Ma con la fortuna che ho, minimo minimo, sarei finito in uno scaffale vicino al “Conte di Montecristo” o al “Viaggio al centro della terra” o a una di quelle storie pazzesche che ti pigliano a pagina uno e non riesci più a smettere di togliertele dalla testa. E a quel punto sì che avrei fatto una figura da schifo.
Spero solo che qui intorno non ci siano racconti del genere e, se ci dovessero essere, mi auguro che la gente si concentri su di loro e mi tolga gli occhi di dosso.
Critiche, giudizi e paragoni mi piacciono zero e, anche se ho imparato a distrarmi quando me li vomitano addosso, non li sopporto.
Sono un racconto timido, l’ho già detto e non ho problemi a ripeterlo.
Voglio sia chiaro a tutti, soprattutto a chi passa il suo tempo a leggermi invece che a whazzappare, a vagare negli androni dei centri commerciali o a giocare alla PSP.
Se volete proseguire la lettura non posso impedirvelo ma poi, per piacere, fate come al solito: infilatevi le cuffie e silenzio. 
Che poi, diciamocelo francamente: infilarsi le cuffie, più che silenzio, è una forma d’isolamento che la mia timidezza in confronto è il carnevale di Rio.
E comunque l’isolamento che vi accompagna sulla metro, a scuola e nel soggiorno di casa, non è argomento di mia pertinenza. Sono fatti vostri, punto.
Ribadisco; sono un racconto timido e tutto voglio fuorché iniziare una discussione con perfetti sconosciuti.
So cosa state pensando. Che la timidezza che sbandiero sia solo una scusa ma che in realtà sia anch’io vittima dello stesso autismo sociale con cui ormai vi siete abituati a convivete.
Fesserie! Io mi chiudo in me stesso per scappare dai vostri giudizi, voi lo fate per evitare i vostri silenzi.
Esatto: silenzi! Quelli che non riuscite nemmeno più a rispettare negli stadi.
Ogni volta che vi si chiede di osservare un minuto di silenzio, dopo nemmeno quindici secondi siete lì ad applaudire, tutti insieme. Perché il silenzio è un vuoto che si è costretti a riempire con i propri pensieri. E a pensare con la propria testa, si fa una fatica porca. 
Io no. Io mi isolo perché sono timido e perché sto meglio con me stesso che con gli altri.
Potete dire altrettanto voi? Siate sinceri.
Sui social chiedete e accettate l’amicizia di persone mai viste in vita vostra, seguite profili di tizi con cui fareste fatica persino a bere un mojito e condividete post di chissà chi per mostrare il vostro impegno, senza nemmeno fare lo sforzo di scrivere due righe di vostro pugno.
La verità è che pur di non stare con voi stessi, vi siete circondati di persone lontane.
Io no, ve l’ho detto. Io sono un racconto timido.
Dimenticatevi di me e ricordatevi di voi.

2030

Brandy le portò il tè. Faceva schifo, come sempre. Sapeva di uovo e curcuma. Cercando di muoversi il meno possibile, la sedicenne calò un braccio dal letto e gettò nella tazza una manciata di minuscoli biscotti di loto. Colpita dai lapilli, la brodaglia esondò e inzuppò il persiano marziano. Ines puntò il naso a terra e osservò la melma verdastra scomparire lentamente, digerita dal tappeto. “Una di quelle invenzioni che rendono il mondo noioso.” Pensò. Mentre attendeva che la bevanda si raffreddasse, si rannicchiò per finire il sonno. Brandy raccolse la tazza, la sistemò nella lavastoviglie, la avviò e si spense.

“Ines?” Una voce sottile attraversò la stanza, solleticando i timpani della ragazza; ma non abbastanza per destarla. Mamma Stella si avvicinò al letto mensola ed allungò una mano verso la spalla dell'adolescente. Involontariamente, sfiorò con il gomito il Jinn, che si attivò, collegandosi all'impianto di Ines. Un piccolo fuoco d'artificio esplose silenzioso al centro della camera, espandendosi in un ologramma sfrigolante. Apparvero immagini familiari: uno spaventoso ragno nero, il modulo abitativo in Umbria, Ettore a cavalcioni di un muretto. 

Stella si gettò sul Jinn, cercando il tasto di spegnimento, ma l'apparecchio faceva parte della dotazione statale “care sensible”. Per smorzarlo, bisognava trovare la giusta frequenza affettiva, quindi accarezzare l'oggetto con convinta dolcezza. L'ansia che caricava di braci i polmoni della donna, di certo non l'aiutava. 

“Ummadonna.” Girava e rigirava la sfera tra le mani, in cerca di una scritta, un'estrusione fluorescente, un segno divino.“Se si accorge che ho accesso questo aggeggio, chi la sente?” Sussurrò, a denti stretti. Il mostro continuava a produrre immagini tremolanti: il trattore dei nonni, la luna crepata, un calice di vino verde, un bacio al tramonto, un bacio al tramonto, un bacio al tra.... 

“No no no no. Si mette male.” Sapeva che il gesto sarebbe stato interpretato come una dolosa invasione del subconscio della ragazza. Allora prese un gran respiro, si sedette, si concentrò e... Amò l'oggetto, lo amò sul serio, sovrapponendo alla palla di titanio l'immagine della sua famiglia. Lo sfiorò, quindi, con grazia di madre, ed il Jinn, sbuffando, si spense. 

“Mamma?” 

Appena in tempo. Un canovaccio stropicciato, a dimensione umana, si affacciò dal letto. 

“Buongiorno, cara. Mmmmhhh, notte brava nella Doppia?” - Erba. - Pensò. Sperò.

“Già.” 

“Erba?” Chiese Stella, preoccupata.

“Tranquilla, tutta roba legale.” Rispose Ines, stiracchiandosi.

La madre annuì. Conosceva bene la Doppia e gli effetti delle droghe virtuali. Si era inventata una scala di valutazione dei postumi che andava da “Naima is on the air” a “Orso mangia Masha”. 

Ines era a livello “Topo Gigio recita Dante “. Apparentemente, tutto in regola. 

La sedicenne si tolse l'auricolare e la coroncina, spense il decoder della Doppia e fece cenno alla madre di allungarle la tazza del tè. Stella vide la tazza appoggiata sul tappeto, la raccolse, ne fissò disgustata il contenuto e, tenendola con due dita, la passò alla figlia. “Dobbiamo riprogrammare Brandy...” Le due scoppiarono a ridere, mostrando una certa complicità. Poi Stella agguantò la figlia e la strizzò. Ines si fece strizzare, fingendo di non gradire la dimostrazione d'affetto. 

“A dopo.” Disse la madre, mollando repentinamente la presa ed avviandosi verso la camera di progettazione. 

Ancora mezza addormentata, la ragazzina recuperò la bacchetta e diede vita alla stanza: accese il prisma scolastico, avviò la routine per l'aggiornamento dei programmi di gioco e contattò i ragazzi del rollerblade. Tentennando, aprì, o meglio, accese la finestra. Erano le undici. Era sicura che le strade sarebbero state deserte. Vide solo taxi con i vetri oscurati, robot giardinieri che inglobavano foglie, ruttando particelle marroncine, e gatti. Tanti gatti. Si davano convegno sulle panche abbandonate e si stringevano in un'unica palla di pelo e tigna, in cerca di pugna e calore. 

La luna crepata rischiarava i piccoli sabba. 

La luna crepata. L'incidente del 2020 ebbe l'effetto di un 11 settembre universale. Quel giorno il mito morì sopra e dentro le teste delle persone. Molte figure particolarmente sensibili, poeti di grotta, negozianti empatici, operai illuminati, si ritirarono in pineta o si suicidarono. Tutti i manager, invece, incuranti delle faccende del cielo, continuarono con lo shopping. 

Il governo, in risposta alla disperazione dei cittadini, si era ridotto ad hacker emozionale. Aveva creato la Doppia, realtà virtuale in 4d, aveva autorizzato il consumo virtuale di droghe leggere (erba e acidi leggeri), implementato il programma di formazione a distanza ed incentivato lo sviluppo della tecnologia care sensible.

Coda di paglia. Ines lo chiamava così: Progetto Coda di Paglia.

Scollò il naso dal vetro, si grattò una caviglia, imprecò – chiusa in gabbia con le zanzare - mentre l'oblò che ospitava la finestra si riduceva velocemente di diametro, fino a scomparire. La parete vibrò, scrollandosi di dosso l'imbiancatura a buccia d'arancia, e divenne maiolica. Come ogni giorno, la ragazzina attivò l'applicazione Vintage 2d del Jinn, che permetteva la proiezione dei propri sogni in forma di vecchie diapositive, con tanto di clic clac tra un'immagine e l'altra.

Jung avrebbe venduto l'anima per una tecnologia simile. 

Freud avrebbe, ovviamente, venduto sua madre. 

Coccolò la sfera. Escluse l'opzione olografica. La sfera sbocciò, mostrando le prime foto. 

Il trattore dei nonni... “Mai visto muoversi. E' stato il quartier generale della mia infanzia.” 

Seconda diapositiva: un grosso ragno nero, ospite estivo di un vecchio campo scout. Clic clac. 

La terza diapositiva mostrò Ettore. Consumò un solo sospiro, poi forzò la marcia delle immagini. Nuova diapositiva.: vino verde. 

-...dove incontrarlo? Non prende taxi, non entra nelle gallerie. Claustrofobia. Come campa, di questi tempi, uno che soffre di claustrofobia? Deve avere una casa bella grande, o acquistare un modulo rettificatore, per sopravvivere all'esterno, per tollerare il Wasteland.- “Si fotta”. 

Sussurrò, affondando la effe nelle ti. 

Le diapositive oniriche scorrevano, senza che nessuna delle immagini distraesse la giovane dall'evocato Ettore e dai suoi dolosi difetti. Clic clac. Clic clac. Clic clac. 

Per un attimo pensò di tornare nella Doppia, cercare Romolo, il pusher autorizzato, e farsi due terabyte d'erba Pipa, ma rinunciò: ne aveva abbastanza della realtà virtuale e delle figure tremolanti che l'abitavano. Decise di uscire di casa, prendere un taxi e buttarsi in un cinema o in un centro di socializzazione . “Per prima cosa, devo lavarmi ed indossare dei vestiti”. Si annusò e concluse che poteva vestirsi senza passare dalla doccia. Tra i tanti abiti che avrebbe potuto scegliere, selezionò accuratamente: un vecchio vestitino blu a fiori, i cui fiori erano ormai diventati macchie di Rorschach, un paio di stivali da rollerblade con la punta placcata di oricalco lavorato ed uno zaino in tyvek coperto di scritte e disegni. 

Recuperò anche un vecchio portafoglio di pelle che puzzava di concia. Un portafoglio grigio; grigio piombo, come il cielo di Milano. Si vestì e si mostrò alla mamma. “Stella?” Stella fece roteare la sedia da ufficio, abbassò le lenti, alzò un sopracciglio ed esclamò “Sembri una zuppa. Una bouillabaisse, per l'esattezza. Ma... mi piace. Originale.” Poi aggiunse: “Ines... mamma, non Stella. Grazie.” “Si, ok. Ciao, Stella, mamma.” Rispose una figlia dubbiosa e sorridente. “Vado.” 

Amava quella donna, ma. Miele e fiele.

Uscita, fermò un taxi, si gettò nella cabina ed ordinò: “Presto, capitano Achab, alla sala giochi di Flynn.” Le piaceva giocare con i tassisti, sempre ebbri di iperico. Il comandante del Pecod 57 sghignazzò di gusto, schiacciò il pedale dell'acceleratore e partì sgommando. 

Ines si sistemò il vestito. Si guardò. Stava bene, si sarebbe definita piena, fatta, finita. Adulta. 

A volte sentiva il desiderio di allontanarsi dal nido, mollare mamma Stella, Brandy, il padre fantasma e prendere un bus per Marte. Aveva tutte le risposte che servivano e non aveva intenzione di porsi altre domande. Accarezzò il sedile del taxi ed il sedile ringraziò, mugolando. 

Arrivati a destinazione, il tassista sorridente inchiodò e si girò di scatto, sussurrando “Due.” 

Ines fece due volte il gesto dell'ombrello ed i crediti vennero immediatamente trasferiti al chip del tassista. “Grazie, gioia.” Fece lui, laido. “Ti spezzo un braccio.” Fece lei, staccando il chip dal casco rettificatore del pirla. Lo sventurato si eclissò nel modulo, la sua pelle acquisì una strana tonalità giallastra e le sue pupille si restrinsero di botto. Senza l'iperico, il risveglio. Senza l'iperico, la realtà lo avrebbe schiacciato come una pressa. Pregò che la sedicenne gli restituisse l'oggetto. Lei gettò il coso sul sedile del passeggero e diede all'uomo una bella schicchera sulla fronte. 

Poteva anche fare paura.

Alla Flynn's Arcade la scelta dei giochi era vasta. Si confrontò con un rompicapo matematico, ma abbandonò la postazione per uno sparatutto meningo friendly. Mentre attraversava la sala, si sentì chiamare. Era Marco, un compagno di roller. “Ciao, Ines. Una birra, per peggiorare la giornata?” Marco aveva un viso incasinato. Tentò di produrre un sorriso. “Vada per la birra.” Rispose la sedicenne, che non amava gli alcolici. Si sedettero al banco. “Come stai?” “Cerco di non pensare. Tu come stai?” “Io riesco a non pensare” “Doppia?” “Già. Ed erba.” “Palliativi. Conta solo il rollerblade. Quando ricominciamo?” “Lunedì. Mazzate!” Mazzate.

Si fecero compagnia, senza parlare d'altro. Finirono la birra, si abbracciarono e tornarono alle rispettive postazioni. Ines considerava Marco un amico perchè non l'ammorbava con inutili riflessioni esistenziali. Entrambi aderivano ad una visione spiccia e pragmatica della realtà in cui cuori, cervelli e fegati degli uomini erano pieni di crepe, anfratti e fessure, come la luna. Nei pozzi fermentavano speranze e tormenti. Ora si godeva, ora si soffriva. Stop. In generale, non si poteva guarire dalla melanconia, ma si poteva giocare, amare, odiare, malgrado il Wasteland. 

Din don! Una voce elettronica si complimentò per il raggiungimento del massimo punteggio. 

“I love Space Invaders.” Commentò Ines.

Tornò a casa a piedi, attraversando gallerie poco illuminate. Vide la sagoma di una piccola cappella. Si avvicinò solo per rendersi conto che si trattava della pubblicità di uno stimolante pituitario, la Via per l'immortalità. Il cattivo gusto dominava il mondo. Avrebbe voluto respirare un po' d'incenso.

Ines pregava un Dio inedito, architetto del Multiverso, creatore dell'uomo e delle code in posta. 

Pensava che l'uomo lo avesse portato all'esasperazione, costringendolo a punirlo. 

-Siamo moschini fastidiosi che si grattano le zampine sul detonatore di un'atomica- Pensò, scuotendo la testa. “Risultato, una luna crepata che mi nega l'amore.” 

Con la mano sinistra si sfiorò il chip. Scorse la rubrica e visualizzò il numero di Ettore. Lo immaginò attaccato alla Doppia, a sognare la luce estinta di esotici tramonti ed albe indigene. Lo immaginò intrattenere conversazioni con altre ragazze, più belle, gentili, disponibili di lei. Pensò a lui così intensamente da far appassire un paio di lampioni. 

Raggiunse un parchetto artificiale. Un'insegna scolorita ne indicava il nome: Arcadia. Lo conosceva.

Grattò di nuovo il chip. Chiamò ed attese. 

Chiuse per pensare due secondi. 

Richiamò ed attese.

“Ciao.” - Il mio hikikomori. Ettore. - 

“Ciao, come stai?” Il modulo olografico risultava inibito. “Non ti vedo, è tutto ok?” 

“Mi manchi.” Il tono di Ettore era grave, ma non sofferente. 

“Ti manco tanto da prendere una pasticca e venire ad incontrarmi in paradiso?” No? 

“Si, arrivo.” Viene. 

Il viaggio fu così breve che il ragazzo arrivò mentre Ines disattivava il chip. “ Ma come...?” 

Un bacio perfetto la fece ammutolire. “Ti ho seguita. Erano due giorni che aspettavo di incontrarti in sala giochi.” Un brivido le rigò la spina dorsale. “Se non mi avessi chiamata, mi sarei ritirato, per sempre.” Aggiunse lui. “E la claustrofobia?” Chiese la sedicenne, incredula. “Rinchiusa in un cassetto. Non resisterà.” Le loro dita s'intrecciarono, come rastrelli in amore. Dalla luna crepata, fendenti di luce ferivano l'ombra del Wasteland, facendo della coppia una coppa. Si sedettero su una panchina del paradiso in terra, attivarono alba e tramonto, programmarono un solenne silenzio e scivolarono insieme tra le braccia di Morfeo. 

Lentamente l'area si riempì di gatti. Negli ultimi tempi si davano convegno intorno alle panche abitate, in cerca di storie, ombre e colore.

L'appuntamento

Appuntamento sabato sera, a casa sua. Non lo vedo da tre mesi ma ci whatsappiamo almeno venti volte al giorno. Nel gruppo ci sono anche Amanda, la Tere, Paolino, Ciro e Daniele, la Baba e il Tigre. Gli altri non ci cagano ma chissene. Abbiamo passato un’estate fantastica. La nostra prima estate da ricordare. Abbiamo assaggiato la libertà, toccato con mano il paradiso… come dice il Jova, avevamo l’estate addosso! Del resto, quando si vive per venti giorni come una cosa sola, poi è difficile staccarsi, cioè manca proprio il contatto fisico, lo sfiorarsi, sentire il profumo e anche l’odore... Mamma mia, il Tigre che puzza! Eppure era il primo a chiamarci la mattina, passava sotto casa di ognuno di noi e poi partiva il nostro lungo girovagare giornaliero. Il bar della piazza, la vasca del paese, la pineta dopo il campo sportivo. E poi la spiaggia, lo svacco totale, la focaccia a chili, le ore sugli scogli, l’imbrunire, un salto a casa per dire che “Ehilà, sono ancora viva”, e ancora la sabbia sui piedi, il fuoco di ferragosto, i baci, le stelle. Una magia.

Mi chiedo come è possibile sopravvivere a tutto ciò e a rimanere felici. Fino a una settimana fa ero ancora completamente stordita, quasi assente, sguardo ebete, le compagne che mi prendono per scema – ma… chettelodico a fare – i miei un po’ preoccupati: credono di avere un fantasma in casa. Mio fratello poi, mi chiamerà cento volte al giorno perché fino a due mesi fa passavo ore e ore con lui, gli cambiavo il patello, gli facevo il bagnetto, lo addormentavo. Mi sa che gli manco un bel po’ ma in questo momento mi deve mollare. Non ci sto dentro. 

Poi fa freddo, è una settimana che piove, i prof snocciolano verifiche una via l’altra e in mate ho già preso un bel 4. In piscina, Renata ci sta facendo impazzire: quattro allenamenti alla settimana, fino alle 9. Arrivo a casa stremata, mangio da sola, chatto un’oretta e mi addormento vestita. E poi via, si riparte il giorno dopo, tutto grigio e ognuno qui dentro che si fa i cavoli suoi: mio padre che esce all’alba, mia madre che ha i turni, la sacca per la palestra sulle spalle. Ma sabato ci vediamo. E si torna a vivere… anche perché va bene WhatsApp ma se mi avesse chiamata una volta o fosse passato a prendermi almeno una volta fuori da scuola, avrei, come dire, apprezzato...

Uscita da scuola, ho accesso il cell ed è scoppiato il finimondo: 134 messaggi. Tutta una lista infinita di bottiglie da portare sabato. Manco fossimo la banda degli alpini di mio zio. Lui vuole assolutamente partire con la “scala di Vodka”, praticamente si parte dalla più annacquata e si arriva al Long Island. È invasato, è già tutto pianificato, un escalation nel delirio. La Tere ha già detto che non viene, che lei di raccogliere il vomito con lo straccio non ne ha voglia. Baba e il Tigre forse hanno una roba di classe e forse tirano il pacco. Ciro è a Napoli, e sabato è sugli spalti. Io ho scritto se era proprio necessario portare tutta quella roba, che magari due birre e i Coldplay a palla funzionano meglio e magari chiudendo gli occhi potremmo ritrovarci sulla spiaggia.. Lui ha risposto che potevo anche fottermi, io e la mia magia, che è ora di darsi una sveglia e di sballare come si deve. Alché anche Paolino ha scritto che magari è meglio vedersi tra un po’, quando ci saremo tutti, magari sotto Natale per scambiarci i regali. Lui ha iniziato a darci dei codardi tirapacchi. La chat si è fatta silenziosa, Amanda è uscita dal gruppo.

 

Tornata a casa, ho acceso Skype molto tardi, prima di andare a letto, e c’era un suo messaggio: “Scusa per prima, vediamoci io e te. Affanculo gli altri”. Non gli rispondo nemmeno. Sabato poi, i miei vorrebbero andare a cena da amici e mi hanno chiesto di tenere il piccolo. Quindi ce ne staremo io e lui davanti agli Aristogatti e tutti insieme – noi due – balleremo il jazz…

Serie TV

Elisa affrettò il passo nell'affanno di vedere se Marco era arrivato. Sì, eccolo lì, oltre la curva sulla solita panchina, ancora una volta chino su quel grande malloppo cartaceo uffa sbuffo lei: aveva portato la palla ma Marco, con un'aria troppo seria per i suoi 10 anni, era concentrato nella lettura, così profondamente da non accorgersi del suo arrivo. “Devi studiare anche oggi?” Si era fatta una treccia di lato molto graziosa solo per farsi ammirare da Marco, ma lui la guardò un attimo appena, con un sorriso, di sfuggita.”Ho solo mezz'ora per studiarmi il copione” lei annuì e si sedette accanto in silenzio “Anche oggi lavoro” non sollevò lo sguardo. 

Marco lavorava da un anno in una grande fiction prodotta dalla Rai. Era un beniamino del pubblico; queste storie di famiglia intigavano molto. L'audience era alle stelle e così si sarebbe andati avanti per molto tempo ancora. Beh, era quasi un anno che non giocavano più insieme. Erano trascorsi quasi due anni da quando sierano incontrati proprio in questo giardino pubblico e si erano subito affiatati. Giocavano, parlavano di tante cose; pensieri, paure, affetti. Elisa era una bambina speciale; una bambina solitaria, sfuggente, paurosa, perlopiù muta. Aveva iniziato parlare tardi. Solo quando aveva conosciuto Marco era arrivato il “miracolo”. Con lui comunicava ed era uscita del suo lungo silenzio. E così erano lì, al solito posto. Lei un poco immusonita; Lui concentrato nello studio. Marco! Ecco, la madre era arrivata per accompagnarlo allo studio televisivo Elisa si avviò melanconica mente con la sorella maggiore verso casa. Si girò per vedere se lui fosse ancora visibile e non si accorse del motorino che le veniva addosso. Marco, il giorno dopo, ai giardini, si accorse dell'assenza di Elisa, ma dopo una settimana cominciò a farsi delle domande. Dopo due settimane, trascorse in fretta per via delle continue registrazioni televisive, decise di telefonare. E così seppe dell'incidente; sì, era uscita dal coma ma non parlava ancora; debole, troppo debole, ma una preside visita all'ospedale si sarebbe potuto fare. Marco si presentò emozionato alla casa di cura per vedere una pallida Elisa non salutarlo nemmeno dal suo lettino., Sebbene lo desiderasse, non potè tornare a vederla, troppo impegnato nelle registrazioni. Finché: “Che succede, marco non hai studiato la parte?” Si affannava il registra, vedendolo distratto, dimenticare le battute. E poi, quell’aria imbambolata, non più la sua famosa, incantevole espressione da piccolo orfanello perseguitato dalla sorte, un Oliver Twist dei nostri tempi, ma un piccolo, inespressivo robot. L’audiennce calava, il pubblico ormai sghignazzava, i critici imperversavano crudeli mente. Basta; per risollevare le sorti della fiction, si decise di far morire il piccolo eroe. Questa sì che si rivelò una buona idea. Sarebbe subentrato un altro piccolo interprete, più capace di lui. Marco si finse afflitto per il licenziamento, approfittò del suo tempo libero per correre da Elisa. Era ancora lì, nel suo lettino grigio, assente, chiusa nel suo mutismo. Emozionato, si accostò e le strinse la mano. “Elisa!“ proruppe forte cercando il suo sguardo. Lei si girò e finalmente sorrise. “Allora, Elisa, devo dirti una cosa. Una cosa importante. Devi guarire, DEVI, perché ora ho tanto tempo libero per giocare con te, tutti giorni, come prima.” “Tutti i giorni?” Lei finalmente rispose, sollevandosi a sedere. “Sì, mi vuoi ancora come compagno, vuoi o non vuoi?” Pensò a come era stato bravo a fingere di dimenticare le battute, assumere quell'area inebetita, a essere legnoso nei gesti. Beh, era stata una grande prova d'attore per lui. Allora? Ripeté. Lei si mosse leggermente, strinse la sua mano. Sì, ok la voce meno fruibile. “Ok” ripeté Marco “Ti do una settimana, al solito posto e. Porta la palla che ti voglio stracciare!”

Il sogno

Dottore, è da tanto che aspetto questa visita; mi stendo qui…ah si, mi chiamo Dragan si, ho 19 anni. Si, il mio problema è il sonno, ma non propriamente il sonno, direi, dottore il sogno; se lei potesse darmi qualcosa per non sognare oppure, meglio trasformare il sogno in realtà. 

Ora le spiego, con calma si.

Dunque ero li, a Mostar, su quella piccola altura che chiamano, beh, non ricordo, è l’emozione sa….Cecchino? Si, ha indovinato, ero in postazione, cecchino quello il mio ruolo, ero in attesa….

E allora, eccolo, lo vedo arrivare, solo due gambe lunghe, un casco, un bersaglio facile. Rido per la facilità dell’operazione: prendo la mira e, per giunta, lo centro. 

Ma, attenzione dottore, il ragazzo, prima di cadere come una betulla troppo fragile, mi guarda. Si, mi guarda diritto negli occhi e vedo che è un ragazzo della mia età, gli sfugge una ciocca di capelli in avanti, e mi sorride. Si, maledizione, mi sorride e io spero di non averlo centrato sul serio, ma no è li immobile, stecchito, senza respiro. 

E io…io, mi scusi non piango però tra un po’ forse si, quel sorriso me lo sogno quasi ogni notte. Lui viene avanti, mi prende per mano e mi parla. Mi parla con dolcezza e mi sospinge oltre la curva, verso la sua casa. Mi vuol far conoscere i suoi, la sua mamuska, il padre, i fratellini.

“Siedi” mi dice indicandomi la tavola apparecchiata.

“Mangia, poi andremo in bicicletta, faremo un giro, arriveremo all’altipiano, percio mangia poco, c’è la salita, non sei allenato”. Mi strizza l’occhio e mamuska ride porgendomi la zuppa fumante. 

Poi dottore, qualche altra notte arriva sotto le mie finestre con la fisarmonica e mi fa un fischio di richiamo.

“Scendi, si va dalle ragazze, musica prima e poi ballo. La mia bella si chiama Ieleni e ha i capelli lunghi fino alla vita e due occhi…due occhi. Dai, scemo, sbrigati”

E poi…non devo piangere, dottore, devo raccontare, ancora una volta, viene a chiamarmi “Dragon, vieni, senti che caldo, andiamo al fiume, a bagnarci, ho portato anche i panini, dai sbrigati” ed eccoci li a sguazzare felici, spruzzandoci l’acqua, i panini adspettarci sul prato. E lui sorride, sorride….

Dottore, mi aiuti la prego, non piango e vorrei tanto piangere.. .io non vedo che lui e il suo sorriso, capisce? Lui e il suo sorriso…

Barbablù

“È sua nipote?” le chiese il donnone dai capelli rossi sedendosi accanto sulla panchina, indicando la bella bambina ricciuta che si dondolava sull’altalena. Aveva esitato a farle quella domanda nel timore che potesse essere una madre attempata e non una giovane nonna, equivoco che poteva spesso verificarsi di questi tempi.  In verità le era parso di sentire chiamare mamma, qualche volta, ma ora Carmela, la nonna, assentiva rivolgendole un sorriso. La luce di maggio nel parco faceva capolino tra il rosa e il bianco degli ippocastani. “Una bella bambina” aggiunse il donnone allargando il sorriso. “Sì” assentì con aria distratta Carmela sorvegliando con sguardo inquieto la piccola. “Figlia della figlia o del figlio?” insisté la donna. “Mi scusi” precipitosamente Carmela si alzò, interrompendo la conversazione. “Giulia!”. Richiamò con un cenno la nipotina che, ubbidiente, scese dall’altalena per correrle accanto. Aveva ragione la sconosciuta; era veramente una bella bambina, 5 anni, grandi occhi grigi con lunghe ciglia, nel sorridere assomigliava alla nonna. “Sì, mi somiglia” pensò orgogliosamente Carmela e somiglia anche a “lei”, la figlia scomparsa. Le si strinse il cuore a pensare alla propria figlia bambina, 30 anni prima, stessi occhi, stessi capelli, stesso giardino. Giulia aveva due anni quando lei, la mamma, aveva avuto l’ “incidente”. Il suo cuore, nel ricordo, aveva spesso moti dolorosi, ma Carmela sapeva che nulla poteva succederle, non ora, non finché la bambina avesse avuto bisogno di lei. E ora bisognava proteggerla dalla verità, anche se un giorno, il più tardi possibile si augurava, sarebbe venuta a galla. E lei, quel giorno, avrebbe dovuto esserle vicina. Arrivate a casa, sbrigò le faccende, di fretta come al solito, poi la piccola avrebbe chiesto, dopocena, prima di dormire, di leggerle una favola, una sola, a sua scelta. “Questa” indicò la bambina allungandole il libro. “Barbablù” lesse la nonna. “Ma sei sicura?” domandò inquieta. “Sììììì” insisté cocciuta Giulia. “Fa un po’ paura” tergiversò la nonna. La bambina si strinse nelle spalle. “Dai, leggi” insisté. E Carmela lesse. Lesse fino alla fine. La piccola stava attenta, con lo sguardo fisso in un punto. “Non doveva aprire quella porta” commentò seria sempre con quello sguardo perso. “No, però alla fine…”. “Alla fine ha scoperto la verità” tagliò corto Giulia. “Anche io non posso aprire certe porte, vero?”. Carmela trasalì al pensiero della scrivania nello studio. “Quella, ecco!” indicò Giulia con il dito puntato verso lo studio. “Mah, sì, è perché il nonno ci tiene certe carte importanti, che non devono andar perse. Cose non adatte ai bambini, ecco…” stava farfugliando. Doveva ricordarsi di prendere il solito calmante, più tardi. “Ora dormi, amore, fai sogni d’oro” la baciò sulla fronte e spense la luce. Attese di sentirla addormentata, poi si diresse verso lo studio. Piano aprì il cassetto della scrivania. I ritagli di giornale erano ordinatamente allineati con quei titoli evidenziati in nero: “Il marito colpevole. Confessa l’assassinio il marito della giovane madre. Il marito tradito da prove schiaccianti. La bambina quasi certamente affidata ai nonni materni”. La foto della figlia sorridente nel giorno delle nozze tra quei fogli. Piano Carmela richiuse il tiretto, non prima di aver baciato la foto della figlia per l’ennesima volta. Meno male che Giulia faceva poche domande sulla mamma, quella mamma volata in cielo dopo breve malattia, era tutto quello che doveva sapere. Il papà? Anche lui, certo, dato che, grazie a Dio, il meritato ergastolo l’avrebbe tenuto lontano. Carmela chiuse a doppia mandata quella porta e sistemò la chiave in alto, in uno stipetto quasi inaccessibile. Si affacciò alla camera da letto della bambina: “Dormi, amore, dormi” bisbigliò con affetto.

Internet

Ramil rifletté che aveva la giornata piena. Piena per i suoi acerbi 16 anni e piena rispetto alla sonnolenta monotonia di quella cittadina della piana bresciana dove l’unico svago per un ragazzino della sua età consisteva in quel sabato sera alla discoteca lungo la superstrada.

Chissà, una sera o l’altra avrebbe potuto esibirsi come il suo amico Ahmed, in veste di Dj: quello “cuccava” parecchio, la voce vibrante, il ciuffo gelatinosamente arricciato, l’ammiccamento sfrontato. Di numeri per “cuccare” ne avrebbe avuti anche lui: si trattava solo di trovare uno straccio di tempo. Però: il mattino il lavoro allo scatolificio, come operaio apprendista, il pomeriggio la scuola serale per specializzazione e poi a casa per i “contatti”. Sì, nella sua giovane vita era apparsa questa cosa nuova, grazie ai suoi contatti Internet nel computer di casa, unico tesoro di quella modesta abitazione di immigrati, piccola ma gremita di specchi e di tappeti, trovava quella “svolta” di cui sentiva un prepotente bisogno. Pensò al suo arrivo dal Kosovo, molto tempo prima, un neonato su un barcone pieno di gente intirizzita di cui non serbava alcun ricordo.

I suoi genitori ora si dichiaravano “integrati”: dei sopravvissuti grati per il dono dell’accoglienza, di un lavoro sottopagato e di un tetto caldo. Ma questo appagamento non toccava Ramil che sognava “qualcosa di più”. Ahmed un giorno gli aveva prospettato quel “qualcosa di più” e indicato come trovare i “contatti” su quello schermo che poteva raggiungere territori lontani ma “vicini” al suo sangue, sangue ribelle.

Ahmed era il contatto, il “reclutatore”. Presto se ne sarebbero andati via loro due. Via, via per sempre. Sullo schermo appariva il volto coperto di un certo Mohamed, occhi sfavillanti tra le bende nere, che incitava i “fratelli”, parlando delle ricompense di Allah, dell’importanza del loro compito. Quando mai qualcuno aveva chiamato “fratello” Ramil in questa terra aliena? Giusto Ahmed che gli batteva su una spalla “bravo, fratello mio. Tra un po’ sarai un uomo, un uomo vero, sarò fiero di te”. Ramil osservò lo schermo che si stava illuminando, ma sentì il rumore della porta di casa e la voce di sua madre: “Ramil, sei qui?”. Chiuse di corsa il computer. Gli occhi gentili e scuri di sua madre avrebbero scrutato come sempre i suoi poi, con un sorriso, si sarebbe diretta in cucina. Con rabbia Ramil pensò alle vecchie mortificazioni subite dai genitori, all’arrivo, i primi tempi. Ma poi le cose erano migliorate.

Sentì il rombo di un motorino, oddio sarà lei? E speranzoso si affacciò alla piccola finestra. Giusto Paoletta, la ragazzina della casa accanto. Qualche volta in discoteca, qualche volta per strada i loro sguardi si erano incrociati, i loro corpi sfiorati, ma poi il giorno prima a lei erano caduti all’improvviso dei libri dal braccio, per strada, giusto quando passava lui. E così aveva trovato una scusa per accompagnarla e parlarle.

Parlare… parlare… con lei si parlava bene, si poteva ridere, scherzare, nonostante la timidezza. Arrivati al portone di casa lui, irrefrenabilmente, l’aveva baciata; lei irrefrenabilmente aveva corrisposto il bacio. Non aveva potuto dormire tutta la notte per questa cosa meravigliosa. “Paoletta!!!” chiamò lui dall’alto. Lei si voltò e agitò il braccio con un gran sorriso, casco blu e motorino bianco, non vedendo la grossa macchina che la stava investendo. Ramil in un attimo la vide riversa sul marciapiede, piccola piccola contro la pietra scura. Scese le scale correndo mentre le sirene dell’ambulanza già si avvicinavano. Stordito, con la bici arrivò all’ospedale e la vide sparire in quell’affollarsi di medici intorno alla lettiga. Restò in attesa, in piedi contro un muro, per tutta la notte. I genitori di lei piangevano affranti all’altro lato del muro. Finalmente comparve il chirurgo e, dall’espressione sollevata dei parenti, lui capì che lei doveva essere fuori pericolo.

Allah è grande, pensò, ma questo Allah gli parve diverso da quello sbandierato dalle voci del computer. Suonò il cellulare: “Ahmed, no Ahmed, non vengo più” rispose stupito lui stesso da questa decisione, dato che tutto era pronto da tempo per “la fuga”.

“È un miracolo” pronunciò qualcuno uscendo dalla sala operatoria.

Per la prima volta in vita sua Ramil si soffermò sul significato della parola “miracolo” e si asciugò la grossa lacrima che bagnava il suo viso.

Come ti chiami?

“Ok, come ti chiami e come si chiamerà il bimbo?” La voce dell’ostetrica intervenne a colmare il silenzio dell’ultimo intervento. Fece un gran sorriso, la sua faccia abbronzata era piena di rughe, doveva essere al traguardo della cinquantina, lo sguardo fiducioso rassicurava le future mamme che goffamente si erano sedute sui tappetini, impedite dai grandi pancioni che accarezzavano a intervalli regolari. Cristina deglutì due volte prima di rispondere. Avrebbe preferito essere l’ultima a presentarsi, il cuore le batteva forte, osservava le altre, non aveva nulla in comune con loro. Sicure di sé stesse, orgogliose del loro nascituro, non vedevano l’ora di prendere la parola per raccontarsi. 

 

Cristina non sapeva se dire la verità o meno. Non voleva essere giudicata. Tutti la giudicavano. Solo mamma e papà le erano stati vicini fin dall’inizio. Se non fisicamente, a livello emotivo sicuramente. Suo papà Giuseppe aveva saputo la notizia per telefono. La moglie lo aveva chiamato per comunicarle l’imminente visita dell’avvocato, e come appendice aveva aggiunto “tua figlia è incinta”. Il resto della conversazione Giuseppe non l’aveva sentito, perso nei suoi pensieri. Cristina aspetta un bambino. Mio nipote. Sarò nonno. Devo uscire di qua. Nonno. Si era commosso Giuseppe. Come non succedeva da anni. La vita l’aveva indurito, ma non era una cattiva persona. Aveva solo scelto strade infelici. Ed era approdato a San Vittore. Furto con scasso, rapina a mano armata, oltraggio a pubblico ufficiale e detenzione abusiva d’armi. In tre occasioni diverse. Questa era la terza volta che visitava l’albergo Vittore, come lo definiva lui. Vado in villeggiatura, era solito dire ai suoi amici. Più volte gli era stato imputato di non essere un buon genitore, ma dio solo sa quanto amasse sua figlia Cristina. Era la luce dei suoi occhi. Tutto quello che faceva era per lei, per darle un futuro migliore, e lo faceva con i mezzi che conosceva, rubando. Quando Cristina era al quarto mese di gravidanza, a Giuseppe venne concessa la libertà condizionale. Aveva passato gli ultimi due anni e mezzo dentro. Cristina non era più una bambina, lui lo sapeva, ma nella sua testa quella realtà incontrava resistenze sempre più forti. Cristina sarebbe stata sempre la sua bambina. Cristina aveva interrotto la scuola superiore due volte, ma alla fine aveva finito la scuola serale alberghiera. Adesso, a ventun anni, stava per diventare mamma. E Giuseppe nonno. Tornando a casa, Giuseppe aveva appreso che il ragazzo con cui Cristina aveva concepito il figlio si era dileguato al primo test risultato positivo. Svanito. “Non sono pronto” le aveva detto, “e tra l’altro non credo di amarti”, aveva voluto precisare. Giuseppe non aveva giurato vendetta, come tutti si aspettavano. Era una fortuna che quel coglione si fosse tolto dal gioco da solo. Ci avrebbe pensato lui a Cristina. Lei certo aveva pianto, aveva dubitato, ce la farò?, ma le braccia forti e possenti di suo padre la proteggevano dai peggiori incubi. La perdita del suo innamorato l’aveva superata il giorno stesso che suo padre fece ritorno a casa. “Ti aiuteremo mamma e io”, le aveva detto Giuseppe. Sarà il nostro nipotino, sarà uno di noi. Tre mesi dopo Giuseppe era di nuovo in villeggiatura, e si informava sullo stato di salute di Cristina per telefono. 

 

In quel momento Cristina si chiese se avesse fatto bene a iscriversi al corso preparto. Mamma aveva insistito talmente che aveva accettato, ma ora non era sicura se la cosa avrebbe apportato beneficio o solo imbarazzo. “Mi chiamo Cristina” e fece una pausa. “Il bambino si chiamerà Giuseppe” disse e si stupì del moto di orgoglio che le uscì dal cuore e dalla voce, “dal nome di mio padre, l’uomo che si prenderà cura di lui. Sono una ragazza madre”. Cristina sentì tutti gli occhi puntati su di lei. Prese un gran respiro e continuò a raccontare. Si sentiva leggera, e già aveva dimenticato il post su Facebook che aveva messo la mattina stessa che citava: “Non sai quanto vorrei fossi qui, mi serve un tuo abbraccio, un bacio, qualcosa, mi servi tu,  papà”.

Salice

Alla sagra del paese ci andò in bici, mentre sua madre accompagnava Gigio con il Kangoo attrezzato. Pensò che non fosse giusto. E si vergognò. Nella scala bambino-adulto, la sua mente reattiva si posizionava tra l'adolescente menoso e il conduttore di tram. Ogni pensiero vestito in pancia veniva denudato in testa. 

Maturità. La parola sempre in bocca a una madre stanca, alla ricerca di pilastri formativi da proporreal figlio senziente.

Roba importante, riassumibile in termini e socialmente condivisa, niente di rivoluzionario: maturità, sacrificio, dedizione, attenzione, ecc. 

Solo che l'odioso piglio dei tredici anni si affacciava al balcone dei sensi, per proporre guerra al mondo e lo spiccio bombardamento educativo rischiava di reprimere un moto naturale con un innaturale rigore.  

“Sbattimento...” Pensò. “Minchia, Gigio...” Il rossore sulle guance, l'esantema della vergogna, iniziava a svanire. Gigio, il suo fratellone, incapace di muoversi senza aiuto, poteva giusto piangere e sorridere e, in più, spesso, lo faceva fuori contesto. Gigio era quello che da sedici anni rapiva la madre e rapinava il padre.

Perché curarlo costava, pure. Così dicevano i suoi.

“Via, la lascio qui.” Parcheggiò la bici vicino alla bancarella delle caramelle. Anche perché era stufo di pedalare. La legò al ponte che sovrastava la sagra. Si sporse dal parapetto, cercando Lena, la sua mezza fidanzata. Voleva vederla prima che sua madre lo inchiodasse al tavolo. Cercava i suoi cinque minuti di spensieratezza, prima del carico emotivo della cena, con Gigio legato alla carrozzina che urlava e si dimenava, la madre che fingeva di richiamarlo e la badante che lo imboccava. Lui in quei frangenti era costretto a vestire i panni del fotografo. Doveva osservare, ma non poteva aiutare: “perché è pesante” e “che sei ancora un pischello” e “lascialo stare, ci pensa Mara”. Pensiero conseguente “Cazzo ci sto a fare”. Il palo. Il guano sul palo. Ecco Lena. Marco si sbracciò fino a quando la rossa lo vide. 

Lei gli fece cenno di scendere e lui fu felice di obbedire. Il loro era un amore fresco, ma autunnale, pieno di baci e di teatro. Lei da grande voleva viaggiare e scrivere per le guide turistiche, lui cercava l'ispirazione per le canzoni che l'avrebbero portato al successo. Come Fedez. Certo Panelungo non si prestava più di tanto alla ricerca del bello, ma, prima o poi, sarebbero scappati insieme, verso Lucca o una di queste località esotiche.

Le effusioni durarono il tempo di un crodino. Poi un emissario, il solito parente alla lontana, richiamò Marco alla tavola. E furono baci che coprono baci e carezze che neanche in Titanic. Poi un distacco musicale.  Pochi passi con il collo torto ed eccolo arrivato alle panche. “Ciao, siediti. Ti ho ordinato i pici e l'oca” sussurrò una madre risoluta. “Grazie... mein Führer” rispose un figlio affamato, sussurrando la parte meno gentile.  La scena successiva si svolse nel solco immaginato, con una variante. Mentre mangiava le pappardelle sminuzzate, Gigio sfilò un braccio dalla bretella, osservò l'avambraccio come se fosse lo scettro di Artù, poi, lentamente, dispiegò l'intera articolazioneverso il fratello. Marcolino, dall'altra parte del tavolo, sorpreso dall'iniziativa, gli concesse di buon grado una mano che finì stritolata e torturata. La madre taceva, scossa dall'emozione. Un'azione complessa e intenzionale.  “E' forte” si ritrovò a pensare Marcolino. Gli venne in mente l'edera. Tirò fuori il moleskine e segnò – Gigio. Edera. – Cancellò edera e scrisse “rampicante”. Sul rampicante Gigio pianse. I fagioli all'uccelletto lo terrorizzavano. E Marcolino scrisse – salice rampicante. Che non esiste, ma un futuro artistapuò inventarlo.

Matassa

Cosmo incide la sua storia sui muri di Milano. E Milano se ne frega. Poi rappa o reppa, o come cazzo si dice. E si racconta al vento. Perché chi ascolta è mediamente depresso, mediamente felice, mediamente sordo. Il vento accetta e porta. Mentre muove regge la melodia. La musica sostiene le parole, ma è una trappola, le dissolve in bolo digeribile. E il messaggio nasce avvelenato e muore molle di speranza. Cosmo ha sedici anni, cova la rabbia di un impiegato, vive nel presente, inventandosi un passato malandrino. Ma ha i baffi da topo e poca esperienza delle cose. Vive d'altro. L'altro è sempre il miraggio di una misera rivoluzione. Oggi ha bigiato. E la giornata si apre su un muro bianco in un vicolo della Bovisa. Promette bene. Ora il drago. Cosmo immagina il drago, il drago si manifesta in due ore di fatica. “Grande.” Gli manca il fiato. Per qualche secondo s'inebria di quei colori, dell'arte popolare, si loda e s'imbroda.  Poi chiude lo zaino e si dirige verso un'inevitabile cazziatone. Pensa che sua madre avrà letto il registro elettronico o ricevuto una comunicazione dalla scuola. Accende il cellulare. Mille chiamate della femmina alfa. Un messaggio “Dove sei? Dimmi dove sei.” Ripetizione, segno d'ansia. L'ansia dei genitori apprensivi muta in schiaffi in un batter di ciglia. “Gli schiaffi si dimenticano” pensa Cosmo. 

Passi, mille passi e la metro senza autista. La tecnologia dei grandi è una forma vuota. Un verme di metallo che ti ingoia e ti sputa nei paraggi della tua abitazione. L’Iphone suona. Perché prende anche venti metri sotto terra. Bella fregatura. Suona. Cazzo, Silvia. “Ciao, ma’... no, scusa, sì tranquilla. Dài non... sedici anni. La prof mi odia e… sì... no. Torno, torno. Sto arrivando. In Dergano. Sì, un quarto d’ora. Non urlare. Arrivo!...” Minchia. Il padre di Cosmo si è involato. Mezzo orfano, così si definisce. Suo padre era matto, ma geniale. Pare che avesse trovato il modo di fare soldi senza lavorare. Potevi trovarlo quasi sempre nella sala giochi sotto casa. Aveva elaborato un metodo per calcolare la probabilità di vincita delle slot. Così diceva. E vinceva. Poi qualcuno dev’essersene accorto. In coma. Due mesi. Poi ciao. A quei tempi vivevano in Gran Sasso, poi casa popolare e tutto il resto. Madre che si fa il mazzo per l’affitto, figlio che odia. Si costruisce un fossato di balle e tutto ciò che serve a non farsi avvicinare da gente troppo felice. E cerca il bandolo. Ma manca la matassa. “La bici!” Il mezzo è proprio diventato tale. Qualche pirla ha spezzato il telaio e fregato tutto il resto. “Oggi non va.” Alza il cadavere e lo molla, scuotendo la testa. Portoncino. Clic. “Sali.” La voce di una madre delusa al citofono fa crescere. Adesso sono cazzi. Adesso mi gonfia. Quattro gradini, primo piano, pop loft al piano rialzato. Apre la porta scrostata. Il silenzio governa la piccola casa. “Mà...?” Nessuna risposta. Dev’essere nera come un tizzone bagnato con il chianti. “Mà, sono qui, dài...” Cerca in cucina e non c’è, accelera, esplora il salottino, poi il bagno – guarda anche nella vasca – che ha visto un film in cui... non c’è. “Ma dove...” La camera è l’ultimo vano. La camera divisa da un telo per separare le orbite di due pianeti erranti. La camera delle lunghe telefonate, della nanna – mano nella mano – anche se sei grande – mapermeseisempreilmiobambino, la camera del primo sonno. “È lì” pensa. Entra, aprendo la porta appesantita dall’urgenza.  

La vede. Lei brilla. Nervosa, piange e ride, piega cose, apre cassetti, borbotta muta.  

La vede. Matassa.

La collezione del signor Strato

Se amate le buone letture, lasciate perdere questa storia.

Io sgombro cantine e solai da quando ho tredici anni, non ho mai scritto nulla oltre alle bolle di accompagnamento né ho mai letto un libro per intero in vita mia. 

Non che me ne vanti, sia chiaro, ma preferisco avvisarvi prima che perdiate tempo nella speranza di imbattervi in narrazioni fantastiche, citazioni colte o frasi a effetto da riciclare per far colpo sulle ragazze.

Fatto sta che, lo scorso luglio, un tizio mi chiamò da non so dove; doveva affittare l’appartamento di Milano di suo nonno e mi chiese di liberargli urgentemente la cantina da tutte le cianfrusaglie. Se l’avessi fatto prima dell’estate, mi avrebbe riconosciuto trecento euro e in più avrei potuto tenere qualunque cosa avessi trovato lì dentro.

Quando uno che deve sgombrare una cantina ti dice che puoi tenerti qualunque cosa ci sia dentro, significa che sei fortunato se te la cavi con un viaggio in discarica. Comunque trecento euro sono trecento euro e accettai.

Il portiere del condominio mi fece entrare col furgone nel cortile e mi diede le chiavi della cantina del signor Strato.

La aprii, accesi la luce e mi ritrovai in una stanza piccolissima, lustra, con centinaia di pacchetti di diverse fogge e colori, ben sistemati su lunghi scaffali di alluminio. 

Nonostante le scatole fossero di dimensioni modeste (la più piccola sembrava una confezione di cerini mentre la più grande avrebbe contenuto a malapena un cellulare), ammassate, coprivano un’intera parete. E’ andata bene, pensai.

Scattai una foto col cellulare; avrei potuto vendere le scatole su ebay e guadagnarci qualcosa.

Ne presi in mano un po’. Erano nuove ed erano vuote.

Non ci misi molto ad accorgermi che ogni scatola era stata chiusa con un adesivo che riportava, scritte a macchina, una data e una piccola dicitura.

12 giungo ‘54 - bocciato.

7 settembre ‘64 - espulso per tre giornate.

3 settembre ’61 - lasciato da Paola.

Dopo una ventina di etichette mi fu chiaro che questo signor Strato non collezionava scatole: collezionava i suoi fallimenti.

Presi una delle confezioni più piccole: 12 marzo ’59 - scazzottata con compagno di banco.

La aprii. Sentii, immediatamente, un fortissimo dolore alla mascella. Del sangue mi uscii dal naso e incominciai a piangere. Non si trattava di lacrime di dolore; erano lacrime di rabbia, di tristezza, di frustrazione.

Tamponai il sangue con l’avambraccio e mi asciugai le guance alla meglio. 

Mezzo stordito, presi una scatola più grande: 4 luglio ’73 - ultimo litigio con mamma.

La aprii. 

Le tempie incominciarono a battermi forte.

La fronte, madida di sudore, iniziò a bruciarmi.

Lo stomaco mi si chiuse di colpo con un tonfo sordo.

Un groppo in gola mi impedii di respirare ma non di vomitarmi sulla maglietta dei Metallica.

Le gambe cedettero.

Cercai un appoggio per non cadere ma le unghie, ormai entrate nella carne, mi impedirono di riaprire le mani per afferrare lo scaffale e, coi pugni serrati, caddi.

Le lacrime, uscirono ed entrarono dai miei occhi, bagnandomi contemporaneamente le guance e il cuore; cuore che ormai spingeva così forte da sentirne l’eco nelle orecchie.

Non so dirvi quanto mi ci volle per riprendermi.

So che passai un giorno e una notte ad aprire scatole, a soffrire, a rivivere tutti i piccoli e grandi insuccessi del signor Strato.

E scatola dopo scatola, fallimento dopo fallimento, mi sforzavo di capire cosa avesse spinto quest’uomo a collezionarli invece di liberarsene. 

All’alba del giorno successivo, con le ossa rotte e gli occhi che bruciavano, tornai in me. Non avevo più scatole da aprire né lacrime da piangere.

Forse quella collezione gli serviva, pensai.

Forse si era convinto che gli insuccessi –piccoli o grandi che siano- non vanno dimenticati, ma tenuti lì, affrontati.

Chissà come aveva chiamato quella sua collezione. Forse, consapevolezza.

Forse, coraggio.